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Crisi climatica globale:

il checkup 2019 mostra un peggioramento

Renzo Valloni, report 19 agosto 2019

 

La crisi climatica in atto sembra giunta ad un passaggio critico

L’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) che rilascia i dati ufficiali delle temperature sul pianeta ci informa che: (1) da quando esistono misure strumentali al suolo e sulle acque superficiali degli oceani, le medie annue delle temperature a terra e in mare delle 20 annualità più calde ricadono tutte all’interno degli ultimi 22 anni, (2) in tutti i continenti le ondate di calore dell’estate 2019 sono da record e in diverse regioni le temperature hanno superato i valori massimi delle rilevazioni di tutti i tempi e (3) la temperatura media del luglio 2019 ha superato quella del luglio 2016 che deteneva anche il record del mese più caldo di sempre.

L’accelerazione del cambiamento climatico non ha precedenti storici

Vale precisare che alle proiezioni sul clima futuro del pianeta fatte dall’International Panel on Climate Change (IPCC) si affiancano altri studi su base geologica, in corso da decenni, che nel 2019 possiamo ritenere robusti e accurati. Si tratta di studi che consentono il paragone di dati reali per lunghi periodi storici, del tutto indipendenti da quelli dell’IPCC basati sulla concentrazione dei gas serra in atmosfera.

Due lavori di sintesi facenti capo all’Università di Berna, basati su centinaia di indicatori atti a rilevare il dato climatico conservato negli archivi geologici (es. isotopi dell’ossigeno, CO2 atmosferica intrappolata nei ghiacci), hanno documentato un’intensità di variazione delle variabili che compongono il clima degli ultimi decenni molto più alta rispetto alle altre fasi climatiche degli ultimi 2.000 anni.

Non solo, dal confronto delle serie storiche risulta anche che il riscaldamento attuale, che interessa l’intero pianeta, non è paragonabile alle fasi climatiche del passato che invece hanno riguardato solo una parte del pianeta e/o non sono state sincrone nelle sue diverse regioni. Ad esempio il Periodo Caldo Medievale (X-XII secolo) ha interessato meno del 50% del pianeta mentre i picchi freddi della Piccola Età Glaciale hanno prima interessato la regione pacifica (XV secolo), poi l’Europa (XVII secolo) e infine altre regioni nel XIX secolo.

La Siberia brucia

Da anni i ricercatori segnalano l’inesorabile progressiva fusione del Permafrost, vale a dire dei diversi metri di suolo ghiacciato caratteristico dei territori periglaciali dell’Artico. Da inizio estate 2019 enormi aree della foresta siberiana continuano a bruciare, una catastrofe ormai fuori controllo per stessa ammissione delle Autorità russe. A inizio agosto, gli ettari di bosco andati in cenere sarebbero 4,5 milioni secondo Greenpeace e 2,3 milioni secondo l’Agenzia forestale federale russa.

Rispetto agli analoghi violenti incendi (wildfires) che nel 2018 hanno devastato la California si delinea un quadro nuovo. Il suolo della foresta siberiana, da sempre descritto come costantemente saturo d’acqua, è stato asciugato dalle persistenti alte temperature che come noto hanno mostrato le maggiori anomalie alle alte latitudini.

In simili foreste di dimensioni sconfinate, a una qualsiasi causa di innesco locale si accompagnano oggi condizioni di facile propagazione degli incendi che, al di là delle possibili inefficienze negli interventi di spegnimento, l’uomo non è sostanzialmente in grado di estinguere completamente. Infatti, oltre alla difficile accessibilità dei territori, sempre per le peculiarità del suolo siberiano che nella parte superiore del suo profilo è ricco di vegetali macerati e di torbe, anche a fiamme apparentemente spente il terreno continua ad ospitare fiammelle e sprigionare faville. È duro ammetterlo, ma il fuoco siberiano potrà probabilmente essere spento solo con l’arrivo delle piogge di ottobre o della prima neve.

La fusione dei ghiacci artici mostra una rapida accelerazione

Come conseguenza delle ondate di calore dell’estate 2019, per le quali le aree periglaciali hanno raggiunto temperature di 22°C, il 60% della superficie della calotta glaciale della Groenlandia è stato interessato da fusione. Si calcola che a inizio agosto 2019 siano state sciolte in mare 12,5 bilioni di tonnellate di ghiaccio e sia stato così superato il precedente record del 2012 che aveva riguardato il 97% di quella parte della calotta glaciale della Groenlandia che nel tempo ha subito fusioni.

Le ondate di calore si sono sempre verificate ed è normale che la calotta glaciale della Groenlandia si sciolga durante l’estate ma risulta anche che le ondate di calore estreme si stiano verificando con una frequenza 10 volte maggiore rispetto a un secolo fa. Non solo, nell’estate 2019 non si è assistito alla consueta limitata fase di scioglimento estivo ma ad una fusione persistente, con inizio anticipato a maggio, in corso da mesi.

Le immagini da satellite della superficie della calotta mostrano da anni la presenza diffusa di pozze d’acqua azzurra di fusione, lo sviluppo di canali d’acqua che defluiscono a mare e l’esistenza di plaghe superficiali grigie di dimensione molto varia. Queste ultime rappresentano dei tappeti filamentosi di microbi e alghe che colonizzano la superficie bagnata dall’acqua di fusione scaldata dal sole. Questi microorganismi dal pigmento colorato assieme alla caduta di inquinanti dall’atmosfera (es. ceneri incendi) favoriscono l’assorbimento dell’energia solare e accelerano la fusione del ghiaccio.

Il forte aumento della velocità di fusione è in piccola quota spiegato anche dalla dimostrazione data nel 2015 da un gruppo di ricercatori anglo-americani per cui la calotta glaciale si scioglie anche dal basso per effetto delle correnti di marea che trascinano acque atlantiche, a loro volta in progressivo riscaldamento, al di sotto del fronte glaciale.

Retroazioni ed effetti cumulati

Stanti le complessità delle interazioni fra i numerosi processi in atto, i ricercatori non sono per ora in grado di sintetizzarli in un unico modello evolutivo e tuttavia si prefigura una progressione della crisi climatica molto influenzata dalle retroazioni fra processi in corso, capaci di causare effetti cumulativi.

In termini semplici e basandoci sui soli fenomeni qui trattati, è possibile tratteggiare degli scenari del tutto esemplificativi per cui, sotto l’effetto dell’aumento delle temperature e delle ondate di calore, si producono degli accoppiamenti fra processi con effetto moltiplicatore.

Nella regione Artica, che si sta scaldando a una velocità doppia rispetto al resto del pianeta, la fusione del Permafrost libera in atmosfera anche grandi quantità di gas metano, un gas serra molto più pericoloso della CO2. Effetto: ulteriore contributo all’aumento del riscaldamento globale.

I wildfires non solo denudano le aree forestate che sono il più potente agente naturale di cattura della CO2 atmosferica ma ne producono dei volumi aggiuntivi; dalla foresta siberiana in fiamme, solo nel mese di giugno 2019, sono state immesse in atmosfera 50 mega-tonnellate di CO2. Effetto: ulteriore contributo all’aumento del riscaldamento globale.

Gli incendi in questione generano immense nubi cariche di particelle fini e ceneri che cadendo sui ghiacci artici aumentano la quantità di luce solare assorbita. Effetto: accrescimento della velocità di fusione dei ghiacci che, a conclusione dell’estate da record 2019, si pensa comporterà un innalzamento del livello degli oceani di 1 millimetro.

Come retroazioni di una terra sempre più calda subiremo quindi degli impatti aggiuntivi che accentueranno la fusione del Permafrost, gli incendi boschivi, il riscaldamento degli oceani e la fusione dei ghiacci artici.

Certamente gli studiosi non sono in grado di dirci con precisione quando l’evoluzione di questi fenomeni toccherà il punto di non ritorno, vale a dire che non saranno più controllabili. È certo invece che, in assenza di azioni urgenti verso la decarbonizzazione del pianeta, sarà solo questione pochi decenni.